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L’ABITO DA CERIMONIA

«Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?

…Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre!».

(Matteo 22, 13-14)

L’ultima scena di questa parabola, che così troviamo solo in Matteo, è davvero sconcertante!

La perplessità che suscita è spontanea: una condanna così aspra è giustificata da una semplice mancanza di etichetta? Evidentemente no. Bisogna risalire al simbolismo, diffuso in tutte le culture, della veste. Essa non ha solo funzioni concrete nei confronti del clima o di decenza riguardo al pubblico, ma rivela anche un aspetto emblematico, estetico e sociale (si pensi solo alla funzione – fin esasperata – della moda ai nostri giorni). Anzi, l’abito da cerimonia è spesso indizio di una dignità civile o religiosa: è ciò che accade per i paramenti sacerdotali, la corona e lo scettro regale, la fascia del sindaco e così via, tant’è vero che per indicare l’accesso a una carica pubblica parliamo di “investitura”.

Fatte queste premesse, diviene allora chiaro che l’assenza dell’abito nuziale nel protagonista indica la mancanza di quelle opere e qualità morali che possono ammettere al Regno di Dio e al suo banchetto. Non è sufficiente l’invito, la vocazione a un compito (“i chiamati”), bisogna anche accoglierlo e adempierlo con fedeltà e impegno, come un habitus (abito o modo consueto di vivere), così da diventare “eletti” cioè ammessi alla festa finale.

Altrimenti si è votati alle tenebre della condanna infernale, lontani dal banchetto del Regno di Dio. Là si avrà «pianto e stridore di denti»: un’immagine quest’ultima non solo di gelo, ma anche di terrore e di disperazione.

Una santa inquietudine ci desti ad accogliere l’invito di Dio!

Il Signore vi benedica!

Don Stefano

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